Dal tradizionale tentativo di imitazione e rappresentazione della natura, ai percorsi interpretativi, spesso ostacolati nel loro definirsi, per giungere alle astrazioni e alle dissoluzioni della materia. Approcci e modalità oggi perfettamente inseriti nella contemporaneità attraverso una “contaminazione” di linguaggi, di ricerche e di pratiche in cui significati, scorci e prospettive sono fonti di connessioni e convergenze.
La “contaminazione” diventa oggettivata nella narrazione realizzata per gli spazi di Isorropia Home Gallery con Postwar, una collettiva di artisti differenti per esperienze e tecniche.
Antonella Aprile, Monica Grycko, Kelly Halabi, Taisia Korotkova, Matteo Lucca e Nico Mingozzi si misurano con l’instabilità generata dal conflitto, dalla crisi e dalle fratture di un mondo lacerato da traumi. Contrapposizioni, ostilità radicata, dramma esistenziale e collettivo, sono condizioni attraverso cui elaborare un comune senso di angoscia, tradotto e materializzato in oggetti che diventano simboli e testimoni di un universo post nucleare. Tutto è conseguenza dell’indeterminatezza del mondo che costringe a ridefinirne i contorni, non solo geografici. La provvisorietà conduce a una natura alterata, distrutta, alla quale restituire un’umanità attraverso ibridazioni, esperimenti, prototipi di umanoidi che assumono forme e consistenze diverse.
Lo scenario apocalittico di Postwar trova un luogo capace di creare componimenti omogenei, “bilanciandone” i pesi, trasfigurando e alterando quell’analisi lucida emersa dall’agire individuale degli artisti. Isorropia Home Gallery è un contenitore, ibrido anch’esso, nato per una funzione specifica, quella dell’abitare, in cui l’”equilibrio” (dal greco “Isorropia”) trova una sua dimensione estetica. Un nitore acromatico che si apre a inaspettate tinte e volumi. Uno spazio privato che diventa pubblico secondo modalità precise. L’ingresso è a invito e la mostra dura un mese, periodo sufficiente alla casa per mutare la sua dimensione. Svuotato di ogni oggetto personale e quotidiano, occultato e dissimulato, lascia completa libertà alle opere ospitate di conquistare angoli e pareti. Insediamenti “urbani” perfettamente integrati ai quali abituarsi seguendo nuovi accordi visivi. Terreno di condivisione, divulgazione e diffusione dell’arte contemporanea in cui la relazione artista-pubblico è diretta, personale, non mediata.
I progetti nascono attraverso un procedimento induttivo, postulato dalla conoscenza del particolare, dall’analisi delle opere e dalle ricerche degli artisti per attivare connessioni, individuare analogie, percorsi comuni, pur nella diversità delle pratiche. Un sentire che traspare mutuato dalla contingenza dei tempi e dalle congiunture sociopolitiche.
Bread-man di Matteo Lucca (Forlì, 1980) è esempio della riproducibilità dell’uomo. I calchi di visi, posti in sequenza sulle pareti di una delle stanze, diventano proiezioni di vite future o futuribili (?). Gli uomini di pane sono sculture di pane e resine a dimensione naturale, allestiti in successione continua nella sala. Duplicati e riprodotti nella serialità dell’operazione meccanica, che per l’artista diventa una tecnica artigianale, si fanno presenze aliene in dialogo con lo spettatore. Esemplari realizzati con un bene necessario all’uomo, presente fin dall’antichità e che ritorna alle origini, come un archetipo, per essere restituito alle generazioni.
Il concetto della reiterazione lo troviamo in Reproduction di Taisia Korotkova (Mosca, 1980). Nuove tecnologie e sperimentazioni, la possibilità della riproduzione anche per l’uomo, la selezione dei feti, i soggetti raffigurati nelle tele dell’artista che usa la pittura attualizzando l’esigenza di una possibile ripopolazione. In Closed Russia, invece, architetture di stabilimenti abbandonati, sono prospettiva rovinosa la cui raffigurazione assume connotazioni vagamente pop attraverso un dipingere carico, denso e pastoso dai colori sgargianti e vividi.
Per Nico Mingozzi (Portomaggiore, 1976), il processo di ricostruzione avviene attraverso la memoria. L’archivio fotografico collettivo diventa documento da cui partire per tracciare una storia recuperata direttamente nei mercatini. Attraverso immagini di grandi dimensioni o ridotte, solitarie o assemblate seguendo un puro formalismo, le identità estinte sono mutate, cancellate, neutralizzate nella loro forma. L’apparente inquietante violenza del gesto, con cui l’artista taglia, cuce con le graffette e cancella con quel fare ossessivo e maniacale, crea un processo estetico dominato dalla possibilità di generare nuove individualità.
Individualità che Monica Grycko (Varsavia), invece, plasma con la ceramica, materiale al quale destina sembianze atipiche generando sculture antropomorfe, esseri immaginari frutto di mutazioni alle quali attribuisce fattezze umane. Donne ibride, Totem, Rat Mother o animali con corpi reali sui quali sono montati dei teschi di creature ignote diventano sconosciute generatrici di una nuova, mista, umanità.
Nell’immaginario di Antonella Aprile (Taranto, omissis) le categorie estetiche del mostruoso e del deforme, si placano abbozzando disegni che raffigurano e interpretano trame di natura inserite in nuovi erbari. Agisce attraverso gesti delicati tracciati sulla carta con la grafite e le tempere. Opere singole o trittici come Filter3, in cui gli elementi vegetali, reali o immaginati, dialogano con innesti contemporanei come la gelatina da teatro blu, posta sullo sfondo o ancora accompagnati da interferenze geometriche. Il dialogo tra il mondo “trascendente” e quello “sensibile” si fa lento e indaga le possibilità delle forme e del loro dissolversi.
La materia si appresta a mantenersi salda sulla tradizione nelle marmoree e bronzee sculture di Kelly Halabi (Parigi, 1991). L’artista crea un panorama naturale decostruito in cui i resti, le rovine e le residualità della deflagrazione segnano, impietosi, la terra. Arida e inospitale, genera originali forme terrestri e mappa una nuova geologia carica di fratture della materia, di incisioni e apparenti precarietà che rimandano a certi paesaggi carsici cinesi.
Postwar è un territorio immaginario emblema del dramma della vita e della morte. Suggellato da una inquietudine progressiva di ricostruzione del ricordo, della memoria e della materia, crea mutanti e creature postfuturiste, per ripopolare i paesaggi stranianti, industriali, sorti dal costituirsi della natura, seguendo nuove tracce. Ristabilire un “equilibrio” che sollevi dal sentimento di afflizione è ricerca ineluttabile e essenziale, riconducibile a quell’universo autentico che li ospita, a quel candore che si presta come “habitat” ideale.
Elena Solito
Courtesy : formeuniche.org